All’Accademia Bartolomeo Cristofori il trionfo della pianista con Beethoven, Schubert e, a grande richiesta, tanti bis

di Francesco Ermini Polacci

Può un fortepiano, progenitore del moderno pianoforte dalla voce più contenuta, restituire i significati emotivi di Beethoven e Schubert al pubblico di oggi, abituato com’è a sonorità più possenti? La risposta è sì, come ci ha ben dimostrato la pianista Jin Ju, protagonista di un recital all’Accademia Bartolomeo Cristofori di Firenze che è stato accolto da un pubblico numeroso con un successo trionfale. E non è questione tanto dello strumento in sé (un Conrad Graf del 1824), quanto delle capacità di Jin Ju di saper trovare sempre su quei tasti accenti e colori assolutamente consoni, grazie a un fraseggio pulito, scorrevole, soprattutto capace di rendere assolutamente trasparente ogni dettaglio, ogni voce musicale. Una chiarezza esemplare che si sposa ad un fuoco espressivo sotterraneo, mai sbracato né tantomeno esibito, nella celebre Sonata op.57 «Appassionata» di Beethoven, davvero poche altre volte ascoltata così ricca di chiaroscuri e di particolari: anche nel vorticoso Allegro non troppo finale, che molti pianisti affrontano solitamente con tempi a rotta di collo e che invece Jin Ju ci fa ascoltare sì rapida ma illuminata in ogni passaggio.

Senza che venga mai meno la tensione. Nella «Sonata D 958» di Schubert, capolavoro dell’estrema stagione creativa dell’autore, il nitore e l’attenta sensibilità di Jin Ju svelano giustamente inquietudini modernissime: l’Adagio suona spettrale e stupefatto, e l’Allegro finale, articolatissimo e incalzante, svela i passi inquietanti e marcati di un’allucinata danza macabra. Jin Ju ha dalla sua un’impeccabile padronanza tecnica ed eleganza, che si fanno ammirare nelle graziose «Variazioni op. 33» di Carl Czerny poste in apertura del programma: non sono di per sé un capolavoro, ma Jin Ju dà loro una dignità artistica perché le sgrana con cura e le riveste di sonorità lucenti. Generosi i bis, Scarlatti, uno Studio di Chopin, e la Gavotta dalla «Suite in la minore» di Rameau: quest’ultima in una lettura sorprendente, senza ciprie settecentesche, ma animata da una forza ritmica travolgente e da un fuoco che l’hanno resa attualissima. In fondo, ci si chiedeva, cosa ha inventato di nuovo il rock?

Fonte: Corriere Fiorentino – Corriere Della Sera 

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