A quindici anni sognavo tre cose: una vasca da bagno per rilassarmi dopo lo studio, un pianoforte di marca a gran coda e un uomo che mi amasse totalmente e fosse un eccellente musicista. Oggi ho tutto questo. Mi chiamo Jin Ju e sono nata a Shangai alle sette di mattina del 28 giugno 1976. Fu una fatica di venti ore per mia madre, donna tenace che lavorava agli altiforni di un’acciaieria. Da subito, quindi, fui capace di mettermi di traverso. Ma quel giorno era radioso e immagino che la prima cosa che vidi sia stato un raggio di sole. In Cina pensiamo che nell’ora della nascita stia scritto il tuo destino. Credo a questo detto anche perché il mio carattere, secondo chi mi conosce, è vitale e solare. Sofferenza e luce rappresentano le stagioni della vita. Entrambe indispensabili: perché la sofferenza insegna a tener duro e andare avanti e la felicità fornisce l’entusiasmo necessario a migliorarti sempre. A quattro anni, con mio padre, musicista e musicologo, feci la prima lezione di piano. Da allora il pianoforte per me è stato il sogno, l’obiettivo primario da conquistare. Anche materialmente. La nostra famiglia infatti era povera e in quegli anni, dopo la rivoluzione culturale, possedere o trovare uno strumento “capitalista” era quasi impossibile. Mio padre mi portava in bicicletta in una specie di circolo. Doveva pedalare per un’ora e mezza pur di averne uno a disposizione. Qualche volta, con mia immensa delusione, succedeva che fosse già occupato. Ma quando finalmente lo tenevo fra le mani non riuscivo a staccarmi da lui. A casa avevo una tastiera disegnata sul tavolo e mi esercitavo lì. Tutte  queste difficoltà non facevano che accrescere la mia passione. E a quel punto papà, sostenuto dalla ferma volontà di mia madre, affidò la mia formazione a un’amica professoressa del Conservatorio. Si chiamava Jin e fu lei a insegnarmi due cose fondamentali: la pazienza e la perseveranza. Perché è dalla fatica continua che nasce la qualità. Chopin una volta disse: “Tutti mi considerano un genio naturale, ma pochi sanno che giorno dopo giorno, ora dopo ora, io studio. Non faccio praticamente altro”. Del resto se oggi un pianista fa 150 concerti in un anno e 70 giorni li passa in viaggio il resto del tempo non può che dedicarlo allo studio. La prima grande svolta della mia vita, e insieme il mio primo immenso dolore, fu quando nel 1983, a sette anni, mio padre ebbe un incarico presso l’Istituto d’Arte della Cina a Pechino. In quel periodo il governo, in caso di trasferimento di un cittadino da una comunità a un’altra, permetteva all’interessato di portare con sé soltanto un membro della famiglia. I miei genitori decisero che avrebbe portato me. Si capisce con quale sacrificio. Io perdevo in un sol colpo madre, fratello e due nonni e in più la maestra Jin, che consideravo una seconda mamma. Nell’ultima lezione lei mi baciò, cosa impensabile tra cinesi, e, all’addio, mi fece due regali: cinque matite colorate, un lusso, e, per il viaggio, un sacchettino di biscotti tondi coperti di cioccolato. Arrivati a Pechino mio padre requisì i biscotti dicendo che me li avrebbe dati al mio compleanno. Quando la data fatidica arrivò erano pieni di vermi. Ci ridemmo su ma tutti e due eravamo dispiaciuti. Per compensare la perdita mio padre eccezionalmente non mi fece studiare  pianoforte e mi mandò a giocare con gli amici. Per due anni restammo da soli. Ci riunivamo a Shangai col resto della famiglia d’estate o per la Festa della Primavera. A Pechino fui inserita nella classe di madame Zhou, capo dipartimento di pianoforte al Conservatorio. Lei, tedesca di nascita, amava molto i bambini. Ci faceva suonare in continui tour nelle scuole, nelle fabbriche e in sale da concerto. In palcoscenico non avevo paura, ero come un vitellino appena nato di fronte a un leone: non ha timore perché non lo conosce.  Per quattro anni sono stata nella sua classe. Lei mi diceva che imparavo tutto in fretta e suonavo tutto veloce. Oggi non lo prendo come un complimento. Una volta mi domandò se avessi mai pianto per la musica, se avessi mai visto uscire sangue dalla punta delle dita. Lì per lì non capii. Poi un giorno alla fine di un concerto un dito mi sanguinò. Lo mostrai con orgoglio a tutti i miei quattordici compagni. Nel 1985 il resto della famiglia ci poté raggiungere grazie a una coppia che doveva trasferirsi da Pechino a Shangai. Uno scambio numerico, perché allora chi nasceva in un posto lì doveva restare per  la vita.  Nello stesso anno, anche grazie al sacrificio dei miei nonni, entrò in casa il mio primo pianoforte. Era piccolo, verticale e mi ricordo ancora la marca: Xing Hai. Trascorsero due anni intensi e felici e nel 1987, a 11 anni, entrai nella sesta classe elementare del professor Yang. Con lui poi ho fatto i tre anni delle scuole medie, i tre di liceo i quattro dell’Università e i tre di specializzazione. In questo lungo periodo di studio nel 1992 e nel 1994 sono accaduti due episodi cruciali per la mia carriera. Nel ’92, a 16 anni, durante una manifestazione d’amicizia tra Cina e Germania nel Tempio del cielo, fui chiamata a sostituire una pianista tedesca che si era ammalata. In programma c’era il V concerto di Beethoven “Imperatore”. Suonai con l’Orchestra Centrale che poi è divenuta Orchestra Nazionale di Cina. Nel febbraio del ’94, invece, avevo 18 anni, fui selezionata come pianista per la prima edizione di un concorso internazionale a Pechino. Dentro di me pensavo: la vita è rosea, sono la nuova star d’Oriente. Invece la stagione delle sofferenze era alle porte. In aprile infatti, mentre tornavo a casa, un automobilista ubriaco mi investì sulle strisce. Il colpo fu tremendo, fui presa in pieno e sbalzata a cinque metri di distanza. Ricadendo sul braccio sinistro sentii un crack e un dolore incredibile. Non svenni e il guidatore per fortuna non scappò. Lui stesso mi portò all’ospedale specializzato nei traumi ossei. La frattura era scomposta, l’osso in parte sbriciolato e soprattutto la testa dell’omero era uscita dalla cuffia. Alcuni medici propendevano per l’amputazione, alla fine decisero di operarmi chiarendo però che c’erano meno del 70% di possibilità di salvare l’arto. Mio padre cominciò a fare discorsi tipo “Stai tranquilla puoi fare l’insegnante, la compositrice…”. Gli gridai che no, che volevo fare la pianista, che volevo tornare a casa e vedere il mio pianoforte. Mia madre era contraria all’operazione e dopo sei  giorni, di notte, dopo avermi fatto imbottire di morfina, mi portò a casa in bicicletta. Dieci chilometri. Appena entrata vidi quel mio pianofortino di 115 centimetri e sentii che quello strumento era l’unica ragione della mia vita. Alzai il coperchio, suonai un accordo in do maggiore e le note mi parvero una voce del paradiso. Una voce che mi diceva di continuare. Tramite amici arrivai al dottor Yu Tao che con trazioni e manipolazioni ricollocò l’omero, mise in asse l’osso e lo bloccò con tre tavolette di legno che ogni tre giorni stringeva un po’ di più. Le mie dita erano diventate salsicce, ma dopo un mese e mezzo anche la parte più rovinata si era compattata nel callo osseo. In questo periodo continuavo a esercitarmi con la mano destra che però non andava come avrebbe dovuto. Sembrava aspettasse la sinistra. A metà giugno mi tolsero le stecche e cominciai a studiare con entrambe le mani e tanto dolore. Furono mesi difficili, ma a settembre riuscii a rispettare l’appuntamento con il concorso. Suonai gli “Studi” di Chopin, la seconda “Rapsodia ungherese” di Liszt e Preludi e Fuga di Bach. Tutti gridarono al miracolo. Nessuno aveva pensato che ci sarei riuscita. Nel 1995 in un concorso tra Francia e Cina io vinsi la categoria “ragazze” e Yuja Wang quella riservata ai bambini. Io avevo 19 anni, lei 10. In Francia siamo state insieme dieci giorni e facemmo tre concerti a Parigi. Lei ha un dono meraviglioso. Forse il mercato americano, che domina nel mondo, ha puntato sulla sua perfezione tecnica, ma io ricordo che quando la ascoltavo e lei era una bambina, rimanevo a bocca aperta per la sua sensibilità e la sua musicalità. Sempre in quell’anno a Pechino feci un master insieme a Lang Lang col maestro Michele Campanella. Lui aveva 13/14 anni e lo conoscevo bene. È sempre stato pieno di entusiasmo e voglia di comunicare con la gente. Ricordo che un anno prima aveva fatto un concerto suonando tutti i 24 “Studi” di Chopin e quel concerto era stato un exploit mondiale. Nel maggio del 1996 il governo mi scelse per andare a Bucarest in rappresentanza del Paese per la categoria pianoforte. Era un concorso internazionale basato su tre prove di cui la terza con l’orchestra. Alla terza prova suonai il Terzo concerto di Beethoven e la stampa occidentale, unanime, scrisse che si meravigliava di come una pianista orientale interpretasse così bene una musica tanto lontana dalle sue tradizioni. Da lì partì la mia carriera di concertista. Giravo molto. Il ministero cinese della Cultura mi considerava una specie di ambasciatrice. Tre anni dopo, ad aprile, ricevetti una telefonata dall’Istituto Italiano di Cultura di Pechino in cui mi si offriva, quale miglior giovane pianista cinese del momento, una borsa di studio che comprendeva spese di viaggio, vitto e alloggio all’Accademia Chigiana di Siena. Avevo 23 anni e Siena fu per me un’opportunità enorme. Arrivai due giorni dopo il Palio di luglio e naturalmente non parlavo una parola di italiano. Di inglese conoscevo poche espressioni, l’ho imparato più tardi. Sbarcata di notte all’aeroporto di Milano con una valigia pesantissima pensavo, sbagliando, che ci fosse qualcuno ad accogliermi. Macché. Ci fu invece chi provò a convincermi ad andare con lui, fortunatamente c’erano molti italiani premurosi e gentili che in vari modi mi diedero protezione. L’indomani, il come per me è ancora misterioso, riuscii ad arrivare a Siena in treno. E lì seconda scoperta: dovevo trovarmi casa per conto mio. Mi salvò una violinista giapponese che era già ospite dell’Accademia e mi accolse nella sua abitazione: due stanze con due letti. Dieci giorni dopo però andò via e io trovai un’altra violinista con la quale dividere la spesa. Con lei ci sentiamo ancora sui social. Alla Chigiana il Maestro Campanella, che avevo già incontrato a Pechino, dirigeva il Corso estivo. Il suo insegnamento fu molto duro e personale. Se non facevi quello che diceva si arrabbiava. Io accettavo le sue indicazioni se le ritenevo giuste, altrimenti seguivo le mie idee. Ma alla fine ebbi il diploma d’oro quale miglior studente dell’Accademia e lui ne fu molto contento. Inoltre la Chigiana mi invitò a tenere un concerto nell’estate successiva e io tornai dalla Cina appositamente. Prima di lasciare Siena ricordo che una sera andammo con gli amici musicisti a Piazza del Campo. Vinsi i divieti dati dalla mia educazione cinese e mi sdraiai come tutti sul selciato caldo. Mentre guardavo le stelle sentii dentro di me una voce che diceva: “Passerai tanto tempo in questo Paese”. Sobbalzai pensando: “Tu sei matta”. Invece la strada che mi avrebbe portato in Europa e in Italia, anche se lunga e tortuosa, si stava delineando. Nel novembre del 2000 durante un concorso a Taiwan conobbi Jörg Demus. Rimase così entusiasta del mio talento da chiedermi di incidere alcune sue composizioni e invitarmi a Salisburgo l’estate successiva per intervenire alla sua Master Class. Subito dopo partii per il Sudafrica. Era l’anno del riconoscimento da parte di quel Paese della Cina popolare (prima aveva rapporti solo con Taiwan) e io ero stata scelta dal ministero per partecipare a una serie di concerti con l’Orchestra filarmonica di Johannesburg diretta per l’occasione da un altro cinese: En Shao. Fu lui, che viveva in Inghilterra, a dirmi con determinazione che dovevo studiare e vivere in Europa e mi introdusse all’attenzione di Martin Roscoe, capo dipartimento di pianoforte al Royal North Music College di Manchester. Nel 2001, finito in luglio il corso di perfezionamento a Pechino, ebbi subito un incarico d’insegnamento. Nel frattempo si era resa concreta la possibilità di andare a Manchester. Non avrei potuto farlo senza il permesso delle autorità cinesi, così dovetti aspettare il benestare che arrivò alla fine d’agosto. Nell’attesa non restai ferma. Prima feci un concerto nella Sala Brahms di Vienna e poi il 19 agosto, all’interno del programma del corso di Jörg Demus, suonai Mozart a Salisburgo. Fu in quell’occasione che conobbi mio marito, Stefano Fiuzzi. Un colpo di fulmine. Entrambi eravamo ospiti del pianista austriaco nel castello di sua proprietà a Gaberg e per sei giorni ci siamo studiati e annusati. Parlavamo di musica e di opere liriche mentre andavamo, come ragazzini, ad ascoltare il “canto” delle mucche. Il corso finì e Stefano dovette tornare in Italia, mentre io dovevo restare lì per alcune incisioni. Ero talmente triste che spesso piangevo. Non mi era mai successo e capii di essermi innamorata. Demus era un po’ geloso, ma alla fine mi salutò dicendo che c’erano soltanto due pianisti al mondo che suonavano bene Brahms ed eravamo lui e io. Tornata in Cina col cuore gonfio presi subito i biglietti per l’Inghilterra. Così sarei stata anche più vicina al mio futuro marito. Dovevo imbarcarmi il 12 settembre, ma dopo la tragedia delle Twin Towers tutti i voli furono bloccati per tre giorni. Partii il 16 passando per Copenaghen. Anche a Manchester fui la migliore e presi medaglia d’oro e diploma nella “Professional Performance”. Martin Roscoe e Kathryne Stott non mi consideravano una studente ma un’artista completa da valorizzare e far conoscere. In quel periodo incominciai a non vergognarmi più dei miei sentimenti e delle mie emozioni. Sembra impossibile ma fino ad allora io non avevo mai detto a mia madre che le volevo bene, nonostante sentissi per lei un profondo amore e tanta gratitudine. Durante una lunga telefonata lo feci. Lei rimase zitta per un po’ e infine si mise a piangere. L’Europa mi aveva dato un altro importante insegnamento. Noi orientali siamo troppo riservati. Penso non ci sia niente di male ad aprirsi, l’importante è non fingere esprimendo sentimenti che non si provano. Nel giugno del 2002 ebbi il primo importantissimo riconoscimento: il terzo premio al concorso  Ciajkovskij di Mosca. Soltanto altri due pianisti cinesi, quarant’anni prima, avevano vinto la prestigiosa manifestazione. Da allora per me è stato un susseguirsi di riconoscimenti a livello internazionale, di successi con le incisioni per l’etichetta tedesca MDG, molto apprezzate dalla critica specializzata, di trasmissioni televisive dedicate alla mia vita e ai miei concerti (vedi scheda in premi ed eventi). Oggi ciò che amo in modo profondo, quasi quanto gli applausi scroscianti del pubblico al termine di una mia prestazione è la mia voglia e, credo, la mia capacità di insegnare ai piccoli e ai giovanissimi l’arte del pianoforte. Credo che in materia abbia scritto parole definitive Tolstòj quando diceva: “Se un insegnante ama il suo lavoro è un buon insegnante, se ama i suoi studenti è eccellente, se ama entrambi è perfetto”. Questa passione-dedizione forse è una forma di doveroso ringraziamento a quanti negli anni hanno contribuito alla mia formazione: la maestra Jin, madame Zhou, il professor Yang, che mi ha insegnato che per essere grandi pianisti è sbagliato voler fare miracoli di tecnica ma è indispensabile mettersi completamente al servizio del compositore, fino a mio marito, Stefano Fiuzzi che, attraverso l’Accademia Bartolomeo Cristofori e l’uso dei fortepiano, mi ha permesso di avvicinarmi alle partiture dei Grandi, capendo quale era esattamente il suono che sentivano le orecchie di Mozart, Beethoven o Schubert. Però non posso chiudere questa mia breve biografia senza citare l’Accademia di Imola e il Maestro Franco Scala che la dirige. A Imola arrivai per un master nel 2002, presentata da Stefano che già vi insegnava. Franco mi chiese di suonare da “Le stagioni” di Ciajkovskij “Agosto” e “Ottobre” e il suo commento, sonoro ed eloquente come la sua parlata, alla fine fu: “Ma che ci fa questa qui se suona meglio di tutti noi”. Comunque seguii con lui i miei corsi da studente e siccome ancora nessuno dei due spiccicava una parola di inglese dialogavamo usando la musica e divertendoci come matti. A partire dal 2006 ho fatto la sua assistente e dal 2009 ho avuto la mia classe.  Il 2009, sia per Imola, sia per me, fu un anno importantissimo. Toccai il cielo quando, di fronte al papa Benedetto XVI nella Sala Nervi del Vaticano, suonai su sette diversi strumenti tutti contemporanei agli autori altrettante composizioni: da Bach e Scarlatti a Liszt, Chopin e Debussy. In sala ad applaudire c’erano cinquemila persone e l’intero concerto fu trasmesso in mondovisione. Imola ha una reputazione incredibile nel mondo e anche in Cina. Questo mi ha permesso di diventare il direttore artistico del Progetto Cina nell’ “Imola Summer Festival” grazie al quale porto in Italia giovani talenti del mio Paese per affinarne doti e tecnica. Cosa che mi è facile anche perché a Pechino sono membro di facoltà al Conservatorio centrale. Questo mio rinnovato impegno nel campo dell’insegnamento non è casuale, sembra piuttosto la chiusura perfetta di un ciclo di vita, il finale adeguato per la prima parte della storia di quella bambina che ero: povera e alla perenne ricerca di un pianoforte su cui suonare. Da qui in poi ci saranno altre stagioni. Con meno sofferenze, mi auguro, e tanti nuovi trionfi.

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